di Alberto Scocco
Lei sedeva davanti a me, e tra noi una candela sul tavolo rendeva calda l’atmosfera. Era piacevole stare lì, conversare, a volte con calma, altre con foga ed enfasi, parlando delle cose più disparate, come se ci conoscessimo da una vita; ed invece era la terza volta che ci vedevamo, e quell’incontro era il frutto di un mio tentativo bizzarro, forse solo fortunosamente andato a buon fine: un biglietto con un numero di cellulare lasciato ad una collega non sempre viene consegnato.Mi aveva chiamato, due giorni dopo, inaspettatamente: avevo dato ormai per scontato che non ci sarebbe stato modo, che non avrebbe raccolto, che… in realtà fosse stato solo un abbaglio quell’impressione avuta quando, lavorando fianco a fianco, avevamo trovato un sorprendente affiatamento. Ed invece… il cellulare aveva squillato, e una voce curiosa ma un po’ formale si era presentata chiedendomi la ragione di quel messaggio. La formalità e il fatto che non s’era presentata col suo diminutivo mi avevano confuso… non avevo capito fosse lei, e sono stato costretto a voli pindarici per cercar di raccogliere indizi sul chi fosse a chiedere quelle informazioni. Quando sono riuscito a capire che era lei, l’impresa del recupero era diventata quasi impossibile; ma… siamo comunque riusciti a capirci, e abbiamo concordato per incontrarci in centro, e bere insieme una birra. Mi avrebbe richiamato per confermarmi l’incontro e, quando più tardi nuovamente ha squillato il cellulare, ero appena uscito dalla doccia; s’è subito presentata dicendo “Ciao, sono Bet.”, e tra me e me ho sorriso, pensando che aveva capito anche lei l’equivoco che s’era verificato prima; le ho detto che mi sarebbe piaciuto anticipare un po’, magari cenare insieme in qualche posto di sua scelta: mi sarei affidato completamente ai suoi gusti, alla ricerca di nuovi spunti. Mentre mi asciugavo, avevo poi ripensato alla sua voce, senza quella formalità che me l’aveva resa distante.Ed era per questo che, quella sera, eravamo seduti insieme, a sorseggiare un vino d’un rosso rubino, corposo, in un calice alto da ruotare lentamente.Lei parlava del suo sport, delle gare alle quali aveva partecipato, degli amici e delle situazioni, dei risultati che aveva conseguito e del “calcio nel culo” che aveva preso all’ultima competizione; l’ha detto ridendo, mentre l’ascoltavo col gomito sul tavolo e il viso un po’ inclinato appoggiato sul pugno, continuando a chiedermi quante fossero le cose che avrei voluto sapere da lei. Cosa hanno visto i tuoi occhi?Quali viaggi hai fatto, e quali vorresti fare?Da quale storia esci, e in quale vorresti entrare?Lo sai quanto sei brava sul lavoro, e fino a che punto i bambini ti adorano?Da cosa deriva la forza che ostenti, e perchè hai così paura di mostrarti fragile?Cosa ti incuriosisce di me, e perchè sei qui?Riesci a leggere queste domande sul mio viso? M’ha detto che non ricordava di aver mai conosciuto un “uomo pesci”, e mi ha colpito il modo in cui ha rimarcato, forse inavvertitamente, la parola “uomo”; ridacchiando e mettendo le mani avanti le ho detto “Uhh… ‘na razzaccia… per carità… da evitare accuratamente; e poi… ascendente ariete… un quadro astrale complicatissimo… senza speranza…”.Mi ascoltava con attenzione quando ho preso a parlarle dell’unico sport che abbia mai praticato con un minimo di continuità: la maratona… correre a lungo, sotto il sole o la pioggia, i muscoli che si contraggono e rilassano, che rispondono al comando di accelerare o rallentare, la respirazione profonda e ritmata…, sulle salite, sulle discese, sul piano…; s’è stupita quando le ho detto che non avevo mai partecipato a competizioni, se non due volte, in cui m’ero iscritto da dilettante e, pur non conoscendo il tragitto e non avendo seguito alcuna strategia, ero arrivato a posizioni più che dignitose; poi anche del nuoto, anche quello per me una mezza maratona: nuotare con bracciate regolari, in mare, fino a quando lo sfinimento fisico non persuade che è ora di “rientrare”. Mentre parlavo, la guardavo nel fondo dei suoi occhi castani, brillanti; vedevo le sue labbra, mobili e nervose, pronte a serrarsi come a distendersi sui denti; sentivo le sue gambe muoversi sotto il tavolo incuranti del contatto con le mie… Giochi sempre con quella ciocca bionda di capelli? Qual’è la cosa che ti piace più di te, e quella che ti piace di meno?Riesci a sentire come mi stai facendo sentire?Lo sai che sei bellissima, e che non so se lo sei di più dentro o fuori? Abbiamo parlato di politica, di comunicazione, della professione, di radio, di cinema, di amicizia; tanti punti in comune emergevano chiari, con quel tanto di differente percezione da rendere ancora più intrigante il confronto; era una specie di danza, quella che compivamo seduti a quel tavolo, mostrando e celando, ad ogni passo, qualcosa di noi. Mi ha poi mostrato quel materiale del suo lavoro che era stato “il pretesto” per il nostro incontro, e che avrei voluto esaminare per avere conferma di quel che stava facendo; mentre sfogliava le stampe del suo raccoglitore sorridevo, a volte annuendo, altre volte scrollando la testa incredulo; alla fine le ho detto con entusiasmo “Ti rendi conto d’avere un talento enorme? Hai fatto tutto questo senza che ti dicessi nulla… senza bisogno di un confronto con me. E… lo sapevo, lo sapevo già la volta scorsa, quando abbiamo lavorato insieme, e… ho voluto incontrarti anche per dirtelo, perchè… sono contentissimo d’averlo scoperto in te.” La guardavo negli occhi, mentre le dicevo questo; lei alternava uno sguardo interrogativo a qualche rapido e un po’ imbarazzato sorriso… Alle 1 e un quarto l’insistente movimento di un cameriere intorno al nostro tavolo le ha fatto fare un sobbalzo; vedendo il locale vuoto, ha esclamato sgranando gli occhi “Ma… hai visto che ora è?! E’ passata l’una! Credevo fossero le 11! Tra poco ci dovremo rivedere sul lavoro, coi ragazzi”; sorridendo sornione le ho detto di sì, che lo sapevo, e che pensavo lo sapesse anche lei.Avrebbe voluto accompagnarmi a piedi in hotel, ma l’ho persuasa a proseguire verso la sua auto, superando insieme il massiccio ponte che separa la zona centrale dal resto della cittadina: non volevo perdere un attimo della sua prossimità, volevo continuare ad ascoltarla, guardarla,… sentirla accanto a me.Con lo sportello della sua utilitaria aperto, mi ha parlato di un suo infortunio alla caviglia, del fatto che l’osteopata che l’aveva in cura non era riuscito a praticarle la terapia: alla prima seduta di massaggio qualcosa s’era mosso in lei, e per due settimane aveva continuato a dormire male e a piangere senza motivo; lei, sempre così forte e che non piange facilmente, a subire una reazione così intensa… Ero serio quando le ho detto che in quella caviglia forse lei sta proteggendo qualcosa, che quel trauma forse aveva la stessa origine dell’ostacolo che ha poi trovato il terapista; le ho detto che avrei voluto aiutarla, per il poco che potevo, anche col massaggio, ma non solo col massaggio, magari dandole degli strumenti per affrontare quel che era diventato una paura.Con un po’ di esitazione mi ha chiesto se sarei tornato. La mia attività per il momento era finita, ma… ho aggiunto che non scherzavo affatto quando dicevo che la volevo rivedere, tornarla a trovare, oppure ospitare… mostrarle la mia terra, il mare di fronte, la collina, la montagna…Nel salutarla le ho detto con un sorriso “…dai… andiamo a dormire, altrimenti ti trattengo qui fino alle 5; magari… la notte porta consiglio…”
Mentre attraversavo il ponte, lungo il percorso che mi portava all’albergo, sentivo il deciso battere del cuore nel petto accompagnare i miei passi sul selciato, e pensavo a come sarebbe stato il giorno successivo, con lei nuovamente accanto, sul lavoro. Sapevo già che non avrei dormito bene…