Di Daniele Camporese
Chi è dunque la Madre degli dei?
Giuliano Imperatore – orazione a Cibele
Procedere significa allontanarsi, allontanarsi significa tornare
Lao zu
È tutto sangue e latte
Proverbio pugliese imparato durante un viaggio
Entrano nello scompartimento due signore distinte una di Firenze e una non mi ricordo. Cominciamo a fare conoscenza. Mi dicono che sono state con il loro gruppo di mamme a Loreto dalla Madonna. La mamma di Firenze mi dice che fa yoga ed è vegetariana, e poi mi dice che gli ricordo molto suo figlio. Lei mi ricorda un pò mia madre. Mi chiede cosa faccio nella vita, se studio eccetera. E ora mi ricorda molto mia madre. Parliamo del più e del meno e di quanto sono cari gli affitti in Giappone. La mammachenonricordodadoveviene mi pare un po’ triste. Ma forse è solo un pò stanca per avere pregato molto al santuario. Mi accendo una sigaretta, la fumo e poi la butto nel posacenere. Mi alzo per andare in bagno, “permesso – permesso”, le due donne continuano a chiaccherare. Loreto deve avere un effetto terapeutico anche sulla comunicazione. Ma al mio ritorno sembrano due invasate, mi assalgono dicendomi parole confuse e concitate, e alla fine riesco a dedurre che hanno dovuto usare l’acqua benedetta della madonna nera dei pellegrini per scampare un principio di incendio che aveva causato la mia sigaretta spenta distrattamente in malo modo. Poi ci ridiamo sopra e continuiamo il viaggio. Ashàb (ma lui si fa chiamare Giacomo) è nato in Marocco e ha 22 anni. Quando lo incontro sono sempre in quel treno, in quella tratta e non è la prima volta. Mi sorride e con confidenza inizia a parlare. Poi io mi appisolo per un po’. Ovviamente più o meno all’altezza di Rovigo arriva il controllore per verificare i biglietti e mi sveglia. Se io fossi un controllore non sveglierei chi dorme: questa è la mia idea di un mondo perfetto. Treni interi di sognatori dentro un’anima senza fine. Comunque Ashàb mi sorride ancora e perciò non me la prendo per essermi svegliato. Facciamo ancora due parole: gli chiedo da dove viene, e mi dice che è di Fez. E’ sorpreso del fatto che io conosca quella città del Marocco, gli parlo di dervisci, ma non capisce, allora dico “sufi” e lui dice “che?” e io insisto “sufi” e lui “ah shufi!…si, si…”. Resto comunque con il dubbio se stiamo parlando degli stessi sufi/shufi. Ashàb è veramente molto simpatico. Mi chiede quanti anni gli do e rispondo diciotto e lui dice “che???” ridendo scopro che ne ha 23 ma poi mi dice “anzi 22, è che praticamente mio papà per farmi lavorare in Italia ha pagato per il passaporto falso e così quando avevo 17 anni già ne dichiaravo 18 ( che è diverso da dimostrarli penso io). Sto tornando da Bologna – continua – perché ho rinnovato il passaporto”. Lavora in un qualche luogo sperduto al confine italiano vicino Tarvisio. Ed è ancora più stupito che non conosca quel paesino italiano mentre so tutto di sufi e di Fez. Fa il panettiere e questa mattina quando ritorna deve andare a lavorare. Mi parla di suo padre, dei suoi fratelli e della sua fidanzata francese. Non parla mai di sua madre ma mi chiede anche lui cosa faccio. “Studio lingua giapponese” rispondo io. Si mette a ridere… “Davvero?” come se fosse la cosa più assurda che avesse mai sentito. Parliamo della guerra, io per sdrammatizzare gli racconto di cosa mi è successo una volta in treno con due signore che tornavano da Loreto. Ridiamo. Dice che gli uomini del deserto cioè quelli che abitano nel sud del Marocco sono come i Napoletani. Ovvero non stanno mai zitti e parlano sempre di soldi, di lavoro e di famiglia. In fondo, io penso banalmente, si è sempre a sud di un altro sud.. Mi dice che ha visitato l’Algeria, l’Egitto, la Tunisia, la Francia e la Spagna. Quando scendiamo a Venezia scompare tra la folla con quel sorriso dolce che ancora ricordo. Io penso alla mia età. 28 anni. E credevo di essere ancora un ragazzino. Da quanto mi è scaduto il passaporto falso? Questa volta il sogno era quasi ridicolo: tu eri sempre tu, ma fisicamente eri Michelle Hunziker (questa è la parte grottesca dell’incubo, ovviamente) e eravamo in un luogo sconosciuto (ma era una città, non credo Ancona, comunque un luogo sconosciuto per me dove tu vivevi). Parlavamo del più e del meno, e poi parlavamo del piccolo. Ti facevo, come al solito, un sacco di domande ma è difficile ricordarsi chiaramente i sogni, più ti sforzi e più svaniscono. Ricordo che forse ti chiedevo qualcosa di noi due, perché non eravamo più assieme, e tu mi rispondevi che il motivo era ovvio: non mi amavi più. Allora ti dicevo che dovevamo frequentarci lo stesso, che eravamo veri amici, anche se non c’era più l’amore. Poi mi dicevi che avevi un altro, un ragazzo giovane, di 28 anni, ed io allora mi stupivo, pensavo dentro di me “ma anch’io ho 28 anni”, ma forse in realtà ero molto più vecchio, era passato tanto tempo, e anche tu lo eri, e non mi importava neppure molto che tu avessi un’ altro, e così ti chiedevo se lui sapeva del piccolo? Se frequentava il piccolo? E tu rispondevi di si, e dicevi ancora una volta che era ovvio, che non potevi mica nasconderlo, anche perchè il piccolo era diventato grande ormai. E allora cominciavo ad avere le vertigini. E tu mi chiedevi una cosa… se le donne che avevo conosciuto sapevano tutte del piccolo? Ed io ti rispondevo di si… ma che quello che loro sapevano di lui era lo stesso che io sapevo di lui, cioè molto poco, e non pensavo neppure che sarebbe cresciuto così in fretta, e infatti mi chiedevano sempre se ero stato a trovarlo oppure no… e che intenzioni avevo e quanto era cresciuto. Ma quanto tempo era davvero passato da quando avevo preso il treno per venire fin là la prima volta? Il sogno diventava sempre più confuso e non sapevo più se avevo sognato anche tutte quelle donne… ed arrivava un gruppo di tuoi amici e sembrava una pubblicità di qualcosa che volevano portarti via, tutti sorridenti che dicevano “dai, andiamo, ci aspettano da…” ed io mentre tendevo l’orecchio per capire dove ti aspettavano così allegri e felici, ti chiedevo di restare ancora un po’ con me. Ma tu tacevi. E allora per farti parlare cacciavo quelle persone in malo modo… come se fossero dei cani… e infatti erano dei cani… o almeno ora erano diventati dei cani e abbaiavano mentre noi parlavamo… ed erano ancora più fastidiosi di prima e non si poteva certo parlare. Poi arrivava anche la tua ‘unica vera amica’ proprio assieme al piccolo ormai cresciuto e non stava mai zitta neppure lei e diceva un sacco di cose in una lingua astrusa del futuro che sebbene capissi benissimo non riuscivo ad inserirmi nella conversazione perchè non conoscevo il contesto. E così lei ti portava via tra le parole e non c’era più nulla da fare se non restare là nel silenzio, soli. Però almeno alla fine non eri più la Hunziker, ma avevi ripreso le tue sembianze reali. Ero contento di aver rivisto il tuo viso, anche se un po’ invecchiato. E il piccolo, com’era cresciuto, era un bel ragazzo di 18 anni ormai. Poi la voce di una donna mi ha svegliato. Il treno non era ancora arrivato. Una donna di circa 40 anni. Sta parlando al cellulare con la famiglia, presumo. Siamo solo io e lei nello scompartimento ma è come se ci fosse una fiera di paese – su marte però in una lingua aliena.
“Jepr l’ucchj! a mèmm! Brèv! Brèv Cj stèm a ffé? mèmm! Cj cmmètt chj criatòur, tròv u litt cacàt… Fatia a carrizza e li sordi… mèmm!N’atten dé da cambé a ccind figghj ccind figghj nen sa bbùn a dé da cambé a n’atten …. mèmm!mèèèmm!!! ma ce ‘te na vulata??? mèèèèèèmm!?”. “La prego mi scusi… l’ho svegliata? Sa… mia mamma, mi tratta ancora come una bambina… voleva sapere come andava il viaggio… ma deve essere caduta la linea… non c’è mai campo all’altezza di Rimini…”. “In effetti…”. E’ una signora molto gentile e davvero bella, dalle forme rotonde e generose. Mi racconta che sta ritornando in Germania da suo marito e dalle sue due figlie. Un viaggio molto lungo, ma lei non ci rinuncia ad andare a trovare i suoi cari a Bari. Eppure ha scelto di vivere in Germania, un pò per amore e un pò per opportunità. Ha trovato un lavoro e qualcuno con cui dividere ogni cosa e con cui farsi una famiglia. Allora lei mi chiede un pò di me, le dico che vengo da Venezia e sono stato a trovare la mia ragazza e mio figlio ad Ancona. Ma so benissimo che è più quello che non dico. “Ma quando vi sposerete? Ma lei è uno studente, non lavora vero..? Allora sarà un problema… e cosa studia?”. “Giapponese” e cerco di sorridere dolcemente come Ashàb. Lei capisce senza tante spiegazioni. Poi aggiunge che è difficile, che la distanza fa soffrire, che anche lei a volte là in Germania sente molto la mancanza dell’Italia, tuttavia per tante cose non farebbe mai cambio, e allora mi dice che vedrò che andrà tutto bene, che vedrò che tutte le cose si mettono a posto prima o poi e infine mi chiede se ho una foto del mio bimbo. Non appena vede il piccolo esclama “Je tutt seng e llett!” e bacia la fotografia. Io mi rigiro e chiudo gli occhi. Alla fine sono completamente solo in scompartimento, e non ho nessuna prova se sto ancora sognando in questo treno o se invece anche questo treno è un sogno. Penso a come e a quando il viaggio si compirà e non mi è dato sapere se ci siamo quasi. Così – adesso – guardo semplicemente fuori dal finestrino. Lo scompartimento è vuoto, non c’è più nessuno, neppure l’autore di questa nota su un taccuino dimenticato.
nota: In giapponese il verbo transitivo ‘kaesu’ ha una gamma di significati che vanno dal più generico ‘ritornare’ un oggetto, a ‘restituire, rispedire, ripagare’. ‘Kaeru’ invece, verbo intransitivo, significa propriamente ‘ritornare’ da un qualche luogo. Sempre ‘kaeru’, ma scritto con un diverso ideogramma, ha un ampio spettro semantico: ‘cambiare, alterare, trasformare, convertire, variare, riformare, emendare, rinnovare’. ‘Kaesu’, invece, se scritto con il medesimo ideogramma di ‘kaeru’, ha il significato di ‘lasciare ritornare’ ma anche di ‘congedare’. Infine, con un terzo ideogramma particolare, ‘kaesu’ si traduce come ‘schiudere un uovo’ oppure ‘covare’, o ancora ‘incubare’.