di Andrea Lanfranchi
Il colonnello Spina non emise un fiato. Con lo sguardo impigliato nella matassa ovattata delle nuvole accennò un sorriso, una piega di sasso tra le labbra illividite dallo sforzo e dalla pena.
Guardava le nuvole il colonnello mentre tornavano a ronzargli in testa le parole del maresciallo Licausi:- quelli dormono tranquilli e sereni signor colonnello, tranquilli e sereni.
Con un ironico ghigno, il faccione del presidente, stampato sul gigantesco cartello pubblicitario che gli comprimeva il petto, lo guardava e lui, Spina, pur non vedendolo, se lo sentiva stampato addosso, come un sigillo marcato a fuoco. Quel maledetto!
Tutto si stava dissolvendo lentamente. La sensazione del corpo lo abbandonava, ma senza dolore, piano, come una schiuma che si dissolve sulla pelle e che nella sua consistenza d’aria torna ad essere aria.
Le gambe non esistevano più, era leggero. Abituato al volo, tornava al volare.
Ma fu una sensazione momentanea, un brivido lo scosse e subito riapparve il mondo. Si ricordò di quel ghigno, di quel faccione spropositato che gli schiacciava il petto. Doveva rispondere, in qualche modo, all’ultimo oltraggio che l’oscura banalità del destino gli procurava!
Allora pisciò. Si fece una lunga e morbida pisciata e non gli importò un cazzo di bagnarsi come un bambino.
Distendendo beatamente i margini del suo sorriso si lasciò andare all’ultimo possibile atto contro l’ipocrisia perbenista di quella faccia che rappresentava tutto ciò che nella sua vita lo aveva sempre profondamente disgustato di quell’Italia  affascinante e menzognera.
Intanto, i primi soccorritori gli si facevano intorno e se non fosse risultata tragica fin dall’inizio, quella situazione aveva proprio del comico.
Nessuno riusciva a capire la dinamica dell’incidente. E poi, certo che ci vuole una bella sfiga a passare nel preciso istante in cui l’intelaiatura in ferro di un cartellone per la campagna elettorale cede di colpo, rovesciandosi a terra irrimediabilmente.
Ci vuole proprio una bella sfiga, ma Valeriano Spina, durante l’arco dei sui giorni più volte si scontrò col caso, e più volte aveva constatato da quali leggi imperscrutabili il caso si facesse governare.
Pilotare aerei da combattimento durante la guerra del Golfo era stata un’ottima scuola. Molto aveva imparato allora sulla posizione degli uomini nei confronti del loro destino, molto sull’enorme dilatazione del tempo negli spazi del volo, tra i fuochi incrociati della contraerea e l’adrenalinico pippaculo che, quell’esperienza poco comune, poteva provocare.
Ma non era solo una questione di sopravvivenza personale, era pensare a quelle strade laggiù, a quelle scuole ridotte in polvere, alle facce asfissiate di chi invadeva le sue lunghe notti insonni.
La calma profonda del deserto e quel cielo luminoso di stelle chiamavano il suo nome, lui e quella notte non avevano niente a che fare con le ciniche prospettive delle multinazionali a causa delle quali avveniva tutto questo.
Quella guerra finì in un lampo, e ce ne fu un’altra e un’altra ancora:- democratica, razionale, giusta… dicono ‘sti figli di zoccola.-  Aveva commentato Licausi a quei tempi, l’ultima volta che si erano sentiti per un saluto e Spina era già lontano, a pilotare piccoli Cessna da diporto.
Erano passati alcuni anni da allora, e lui era lì intrappolato sotto un enorme marchingegno di ferro e lamiera a ripensare a Baghdad e al fatto che un tempo, non lontano da lì, le lingue degli uomini si dispersero in parole ed accenti diversi, non ritrovandosi più:- continueranno a vagare nel buio – pensò Spina -a cercarsi, fino alla fine del mondo…