Esterno giorno. Il latrare a zig-zag del vento scotenna i miei nervi, già intimamente furiosi. Le porte si socchiudono lasciando passare spiragli d’occhiate giovani. Erano insomma giovani come tutti gli altri. Seduta, rannicchiata intorno ai miei segreti, spio l’orologio. I ricordi riempiono la stanza tanto da impedire di muovermi. Li respingo. Mi alzo di scatto. Mi dirigo verso il bancone dove l’infermiera, con l’uniforme inamidata e una provetta in mano, mi rivolge un’occhiata distratta. Un sorriso indulgente dal rossetto sbavato le sfiora le labbra ma non gli occhi.
“C’è ancora molto da aspettare per quel referto di mammografia?” chiedo fragile. Così fragile che potevo essere spazzata via al primo soffio di vento. Sentii il rifiuto già dal tono della sua voce. Da quando convivo con questo sospetto, ci sono giorni in cui copro l’orizzonte con scatole e cartoni “Il medico è stato chiamato per un’urgenza. Manca la sua firma. Appena rientra lo avvertiamo che lei è qui” Precisa, garbata, sterile. Riprende a scrivere, imperturbabile.
Io ridotta al silenzio: come il silenzio di un acquario.  Improvvisa la stanchezza mi si rovescia addosso e mi muovo lenta, guardando le mie mani e il pavimento. Apro la porta ed esco come sbalzata fuori dal nido. Ho freddo. Mi stringo nel cappotto e affondo i pugni nelle tasche. Respiro. Respiro profondamente. L’aria mi sembra inzuppata dell’odore della mia paura. Il mio tempo è aggrappato coi denti a quei quattro sogni appesi ai rami del pino di fronte. Sto lappando il fondo del tegame, ma questo è il referto decisivo per la vita: la mia.
L’avviso di un messaggio dal cellulare mi riporta al presente. Ravano nella borsa spazientita. Leggo: “ Mettici la passione in questo 2008! Auguri” Mi sento fuori posto: la passione, l’entusiasmo, così pesanti, obliqui ed estranei. I lacrimoni rotolano giù dalle guance, caldi, silenziosi e liberatori.  “ Signora è qui?!!” mi punge una voce alle spalle.
Veloce mi spazzo il viso con le nocche delle mani gelide e  furtivamente butto alla cieca il telefono nella borsa, poi mi giro.
Sulla porta un giovane uomo che non era riuscito a togliere dai capelli quell’aria ribelle, ammansiti dagli occhiali appollaiati sulla testa e dal camice bianco, mi scocca un’occhiata interrogativa, accompagnata dal gesto galante dell’apertura della porta. “Sono il dottor Villa. So che mi stava aspettando.” Annuisco e lo seguo muta. Brandelli di me rimangono sul marciapiede.
Non mi siedo. Insiste perché mi accomodi mentre si appoggia con la schiena alla poltrona. Sulla scrivania c’è una busta bianca. Con studiata lentezza inforca gli occhiali e la apre: n’estrae un foglio e legge in silenzio.  Stringe le labbra, firma con uno svolazzo e un punto.  Zac!! Si toglie gli occhiali e li posa rapido. La penna scivola giù in terra, producendo un suono sinistro. Che sia un cattivo presagio? Oggi il mio portafortuna deve fare gli straordinari.
Affronta il mio sguardo. I miei occhi sono grandi e spalancati su un    “Mi dica” ma la voce più non esce. Ingoio quel nodo in gola e mi siedo, stremata. Come dietro ad un vetro lo sento parlare. Capisco di dubbio, di meglio approfondire bene, accertarsi, di tutto risolto, di fortuna e spalanca un sorriso. Mentre con un colpo di tosse mi libero da una letargia cerebrale, intendo chiaramente di negativo conclamato.
La passione… Negativo è la parola del 2008, detta con passione, d’ora in poi. Piove. Stringo una busta. Trasformata e piena di vita guardo sfilare la città sotto i miei piedi.  Da qui iniziano i sogni.