Buio.

Silenzio.

Poi luce.

Stazione degli autobus, notte, ora imprecisata, ma comunque dopo mezzanotte.

Sala d’attesa illuminata da due neon. Al centro una panca di metallo a tre posti; sulla destra la porta del bagno. Dentro il bagno un lavandino, un cesso, uno specchio. La luce del bagno non funziona, ma dalla finestra entra uno sbaffo di luna.

M.S. Trebuchet si guarda allo specchio. Ha un aspetto orribile: il volto bianco, gli occhi rossi, le labbra blu. La barba di tre giorni è un foglio scarabocchiato.

M.S. Trebuchet, scrittore emergente, da sempre. Inchiostro raffinato, coltivato sulla sponda sinistra della Senna, sapore vibrante, tono vellutato, profumo d’assenzio; così si definisce lui.

M.S. Trebuchet: una promessa mai mantenuta. Anacronistico e acerbo. Così lo definisce la critica.

Pessimi rapporti con gli editori; pessimi rapporti con le donne; pessimi rapporti con il tempo.

Maledetti contabili! Tutto in funzione dei numeri! Date dati orari scadenze anniversari. Non basta più la parola?

Così pensa M.S. Trebuchet mentre si lava le mani sporche di grasso.

Era stato in tribunale, dove il giudice aveva messo la parola fine al suo matrimonio. L’amore era finito da un pezzo invece.

Sulla strada verso casa la macchina lo aveva abbandonato d’improvviso: un colpo secco come un imperativo.

Poi silenzio.

Aveva aperto il cofano e guardato il motore con disprezzo; poi aveva provato a fare qualcosa, a caso, ma era riuscito solo a sporcarsi le mani di grasso.

Il problema, però, non era la macchina rotta, né il divorzio appena consumato. Il problema reale era il racconto. Gli mancava una fine.

L’unica fine sicura, se non l’avesse consegnato in tempo, era invece la sua. L’editore era stato chiaro: questa volta non avrebbe tollerato ritardi di alcuna entità.

Mi serve un vettore narrativo! Mi serve un giorno in più! Mi serve…

Un po’ di sapone. Il grasso non se ne và.

Non una goccia di detergente per esseri umani! Non un pezzetto di carta igienica! Se anche mi venisse l’idea dove la scrivo?

Scrivere l’idea per il finale sulla carta igienica non è di buon auspicio.

Si gira verso il cesso, si slaccia la patta e fa per pisciare, ma si ferma: sul fondo della tazza c’è qualcosa: oltre l’acqua, oltre la semioscurità, qualcosa ruba un po’ di chiarore alla notte, riflettendo un luccichio.

Si riallaccia la patta e va ad aprire la porta, lasciando entrare un fascio di neon dalla sala. Non risolve gran che. La prospettiva non è buona.

Calma! Devo riflettere!

E così fa.

Si mette a riflettere sull’idea di riflettere, mentre osserva nello specchio l’immagine riflessa di sé stesso che riflette.

Si sente solo come un punto.

A quel punto si accorge che la soluzione è davanti ai suoi occhi.

Compiaciuto avvicina lo specchio e ne percorre il perimetro con le dita, cercando il punto in cui fare presa per staccarlo. Non lo trova.

Il gesto è istintivo, rapace e secco: fulmineo come un monosillabo.

Con un diretto colpisce il centro dello specchio frantumando sé stesso in tanti poligoni irregolari.

Prende un pezzo caduto nel lavandino e devia la luce verso il fondo del cesso.

Una pistola. Riesce a distinguere la forma del manico e del cane. E poi il grilletto, seducente come un ghigno luciferino.

Sacrifica una mano nell’acqua e recupera l’arma.

Bel deterrente! così definisce le pistole.

Finché non spara! Perché se spara è un colpo di scena! Un coupe de téatre!

Abbassa la tavoletta del cesso e si siede. Si rigira il deterrente tra le mani, lo impugna, lo pesa. E lo pondera.

Come lo faccio finire?

Questo si chiede M.S. Trebuchet.

Silenzio. Poi buio.