Gustavo Cimaglia aveva le mani grosse, sempre sporche di fuligine, con il grasso usato per la manutenzione delle stufe di ghisa e delle cucine economiche ficcato sotto le unghie.
La sera, prima di chiudere bottega, compiva un rito: lavava bene quelle mani robuste con una spazzola dai crini logori e un pezzo di sapone ruvido, che la moglie Anita aveva staccato via da quello del bucato. L’odore delle mani, allora, da affumicato che era, diventava quasi delicato, che se uno lo fiutava a occhi chiusi, s’immaginava un caminetto acceso con appesi vicino tanti mazzetti di fiori di lavanda lasciati a essiccare. Uscito dalla bottega, Gustavo abbassava la saracinesca arrugginita, arrivava in fondo al vicolo e sbucava sul Lungotevere che nei tramonti di giugno brillava di riflessi rosa. Qualche volta si voltava verso Castel Sant’Angelo e diceva un’Avemaria. All’angolo di casa sua salutava Oreste, il pizzicarolo, che spesso gli offriva un bicchiere di vino, poi tornava a casa contento. Gli sembrava di sentire nell’aria l’odore dei friggitelli che Anita gli preparava per cena.
Una notte di fine settembre i coniugi Cimaglia vennero svegliati da tanti colpi grossi battuti sulla porta. «Gustà! E ‘mo che sarà successo?» chiese Anita in preda all’ansia. Gustavo s’infilò le pantofole al volo, ma mantenne stranamente la calma mentre scendeva le scale in mutande e canottiera. In cuor suo sapeva bene che potevano venirlo a prendere anche di notte.
Dalla finestra socchiusa, Anita sentì due uomini parlottare con suo marito. Gustavo rientrò, s’infilò alla meglio i pantaloni della sera prima e una camicia pulita.
«Anì, te devo dì ‘na cosa, ma tu me devi promette che non lo dici a nessuno. Proprio a nessuno. Fino a che non lo senti dì alla tv o alla radio». La moglie annuì mettendosi preoccupata una mano davanti alla bocca.
«Anì, è morto il papa. Devo annà» e la baciò sulla fronte prima di ridiscendere nella notte.
La stufa di ghisa della Cappella Sistina era stata costruita, montata e collaudata da Giacomo Cimaglia, padre di Gustavo, nel 1939. Da allora, quattro conclavi s’era fatto quel tubo diferraccio alto un metro e largo mezzo, con un piccolo sportello sul davanti per la legna, e sulla cima una cupoletta che s’apriva per infilarci i fogli di carta buona dove i signori cardinali avevano scritto il nome del papa migliore secondo loro, fino a che non si mettevano tutti d’accordo e azzeccavano quello giusto. Solo a quel punto, nella stufa, s’infilava anche… Mica la paglia umida come usava una volta, ai tempi di suo padre, no, ma una fialetta con una sostanza moderna – dopotutto era il 1978 – che trasformava la fumata nera in una fumata bianca, mentre il Protodiacono già si scaldava la voce per annunciare al mondo interol’Habemus Papam.
Gustavo lavorò tutta la notte perché per l’ora di pranzo la Cappella doveva essere libera e già lustrata, che il conclave non si sapeva quando sarebbe iniziato, ma tutti speravano presto. Centoundici cardinali elettori sarebbero arrivati in quei giorni da tutto il mondo per essere chiusi a chiave là dentro.
«Una volta i conclavi duravano mesi, oggi no», pensò Gustavo mentre controllava i circuiti della stufa e del comignolo. Accese il fuoco e riconobbe l’odore sano di quando tutto tira a dovere. All’alba infilò nello sportelletto la fiala di prova, quella della fumata gialla, poi scese nella piazza per controllare che il fumo uscisse per bene e del colore giusto. S’accese una sigaretta e contemplò la bellezza solenne di quel momento tutto suo.
Tornò a casa alle 9, portando ad Anita un cornetto alla marmellata.