A scuola era la più brava. Sapeva tutto prima ancora che le venisse insegnato, si poteva giustificare la sua indole come un dono della morte. Bastava che leggesse una poesia, la voce le si modificava, i poeti scendevano in lei.

Rula per il padre era un puro fattore ottico, conosceva quel corpo come conosceva il motorino che usava per scendere da Scutari, sapeva che c’erano due ruote e un pedale, ma il funzionamento era un accenno al sacro mistero divino.

La vecchia con cui il padre si rintanava a letto la sera aveva una bellezza simile a una parodia. Era il ritratto della vecchiaia, ma possedeva l’allegria dello sfinimento. Aveva un cane che obbediente la inondava di saliva. L’adolescenza di Rula fioriva e il suo viso cambiava, non era più quello di una bambola, aveva perso la profondità che hanno i fumetti, quel colore acceso dell’infanzia. La vecchia aveva visto nello sguardo della ragazza una velatura plumbea, erano occhi che a volte sembravano indaco e che invece erano colmi di terra e muschio. Un pomeriggio la aspettò sotto casa.

«Rula, sei bella, divori tutto a tavola, non hai mai un raffreddore, sei pronta per andare in Italia. Partirai e poi ci scriverai e noi ti risponderemo. Lavorerai, e non sarà niente faticoso.»

La voce della vecchia sembrò sedersi nel pronunciare più volte la parola amica, ma Rula già non ascoltava.

In Italia la ragazza imparò a mettersi in posa tre le lenzuola. Non sognava. Succhiava carni mature, aveva i polsi consumati dalle funi, le avevano rotto un dente e i capelli ossigenati ospitavano il fiato di amori stranieri. Erano tutti amori in versi spezzati, punteggiati da valute straniere, enjambement programmati, assonanze di corpi, fiati in conflitto con la metrica.

Rula procedeva così: si passava il rossetto oltre la linea delle labbra, indossava un paio di autoreggenti nere, consumate sui talloni, si sistemava tra le lenzuola e aspettava che il nuovo amore la toccasse dove il mondo andava a finire. Parlava poco, eppure qualche volta citava un verso in albanese e nessuno la capiva, avvertivano una voce nuova senza riconoscervi il fiato di un poeta morto.

«Voglio andare a casa» disse un giorno Rula alla compagna di stanza.

«E come pensi di fare? Non sai neanche dove andare.»

«Per andare a casa non serve conoscere la strada» rispose.

Perdeva grosse ciocche di capelli che buttava nel lavandino, cancellava i gomitoli con il getto dell’acqua.

I clienti la guardavano meno, le infilavano il loro pezzo di carne rigida dove preferivano e poi pagavano per andarsene. Nessuno si fermava ad ascoltarla, nessuno cercava più quel suono albanese semisconosciuto. Nessuno era interessato alla voce dei poeti morti.

Un giorno giunse una lettera per Rula: il padre era morto. Infilò la busta sopra le altre che teneva annodate dentro un fiocco rosa. Quella notte sbriciolò le lettere e chiuse tutto dentro un sacchetto. Salì lentamente la montagna sopra il paese, il vento soffiava asciugandole il sudore. Strappò il nylon e gettò in aria una nuvola di carta che segnò i sentieri come in una mappa.

Il giorno dopo partorì una bambina dagli occhi di terra e muschio.

«Si chiamerà Rula. Rula deve avere un papà e una mamma.» disse

«Sei sicura?» chiese l’infermiera.

«Sì. Rula deve tornare a casa.»

La giovane donna lasciò l’ospedale. Da sola. Dopo qualche passo si mise la mano su una spalla e le parve che dovesse durare così, in eterno. Sulle montagne, nei sentieri verso Scutari, di corsa a scuola fino al suono della campanella.

Quella notte cantò con un filo di voce, una voce che veniva da un corpo non suo, dissotterrato.