L’addio giunge un mattino d’autunno, su una buia tromba di scale, dove riecheggia appena il brusio della pioggia: muta si porta un palmo di mano alle labbra, glielo bacia ad occhi chiusi.

Fuori, Venezia.

Il Ghetto.

Una calle tra alte facciate.

Il labirinto.

Carta fra le mani crede rimasta la sola salvezza: le lettere di Keats.

Muta la città per lui, opaca. La sua cadenza è di rive d’alga, che sale e scende l’orlo verdastro dei canali. Sullo sfondo la voce di lei.

Legge e scrive a matita, al tavolo di bacaro, spiando la calle.

La segue da lontano, fino al cupo sotoportego dove il campo dilaga repentino come un mare, sùbito aperto e fondo che non tocchi, sul ciglio dello scoglio ti ritrai.

Ma a Rialto seguirla non può, se non con gli occhi, quando dal vaporetto la vede a piedi veloce, su una sponda del canale e dopo il ponte già sull’altra, la folla s’infittisce e dirada come banchi di pesci a fior d’acqua, ma loro vanno quasi pari, per non perderla si apre un varco tra i passeggeri sull’altro fianco, gli sembra assurdo non chiamarla, che voce avrebbe, avrebbe voce se la chiamasse? il sorriso che ha creduto di leggere sulle labbra, pur così lon­tana, scompare quando svolta per una calle, sfocata macchia d’oro i suoi capelli.

Bora all’imbrunire, cielo fosco basso greve, grossa e schiumante la laguna sommerge i moli.

Da uno sporco e spesso vetro in coda al vaporetto, fissa l’onda inghiottire la scia di schiuma, come la nebbia lentamente quella delle fioche lanterne sulle bricole.

Due ragazze inglesi di fronte a lui hanno visto Keats abbandonato in grembo, si guardano con sorriso d’intesa.

«Here lies one whose name was writ in water.»

«Verità è bellezza bellezza è verità, solo questo ci serve di sapere.»

Arriva dove, dalla più esposta punta del molo innanzi al Lido, par di vedere nella bocca di porto tra le intermittenze del faro la laguna confondersi col mare. L’estrema stazione mareografica ha vorticanti eliche, rulli di carta dove scorre a picchi e valli l’inchiostro igroscopico per ogni minimo sussulto di venti e maree. Benvenuti al faro, si ripete, il faro è la vita, il paradiso può attendere, sui massi d’argine poche livide scritte quasi prese dal buio, gli scienziati spendono un sacco di soldi per andare sulla luna noi con una canna andiamo e torniamo, oggi ho visto Mattia con un’altra fia che si abbracciava mi è caduto il mondo addosso, notte d’amore le tue mani due piume, cazzo mi sono masturbato e non mi sono vergognato.

Vorrebbe partire, di notte la stazione è chiusa.

Gelida la veglia sulla panchina del campo sotto casa.

Ascolta sfumato chiacchiericcio televisivo.

S’affaccia sul rio dove dà la sua finestra.

S’affonda nella poca lana della giacca.

Cominciano i barconi, scivolando silenziosi, ad attraccare e a scaricare.

All’alba, col naso in su, chissà come s’accorge delle case sul canale, d’altane camini barbacani, che veste piano la luce bluastra, quasi turchina, a poco a poco venata di rossori, ed è sulle sue labbra che affiora un sorriso.

Tende l’orecchio a tutte le sirene del mattino, barche vapori navi; al frullo dei piccioni che sul campo deserto la ramazza mette in fuga.

Ai mille passi che d’ogni lato come echi s’avvicinano.

Ora gli pare di vedere e di sentire.

Cerca pontili già gremiti; fumosi, umidi caffè con le luci ancora ac­cese, a ridosso della pescheria.

Oggi ristoro gli daranno selvatici campazzi erbosi alla Giudecca, dove guarderà bambini giocare sotto larghe lenzuola al vento, inondate di sole.

Sole sulle chiazze di gelo, sui ritagli del bacino rilucenti nel pomeriggio di quasi inverno.