«È un orizzonte di sabbia, di polvere, di luce morganica e pallida, quello in cui si perde il lettore bramoso di conoscere altro, dell’uomo che si cela nel nome di Franco Ferrara. Un mondo, quasi, di inafferrabile sostanza, del quale si è tentati dubitare perfino l’esistenza. E mentre l’incontro non mediato con la sua poesia genera l’effetto opposto — di fiume, di vapore schiumoso che si riversa e scorre nelle vene, udibile, palpabile, come una corrente d’ignorati echi —, sul retro della storia si è lasciati in un pugno di nebbia, a scavare tra dune di sconcertante vuoto. Un enigma, almeno sulle prime, che si nutre del silenzio e dell’assenza di molte parti del quadro: picaresche imprese che sembrano uscite dalla memoria di un altro secolo, documenti scomparsi, libri introvabili, nomi che dopo una prima militanza si sono serrati dietro una rinunciataria e senile reticenza».
Così scrive nella prefazione Gianluca Armaroli che, insieme a Giorgiomaria Cornelio e Domenico Brancale, ha curato il volume (in uscita il giorno 8 settembre nelle librerie) Il cielo era già in noi, che raccoglie tre delle ultime quattro opere scritte e pubblicate in vita dal poeta romano sul finire degli anni ‘80, ovvero La trasgressione del silenzio, Imżad e questo intendevo dire, che insieme a Lettere a Natasha (di prossima pubblicazione per un editore amico, in un progetto di riproposta comune dell’opera, ancora sconosciuta al pubblico della poesia) rappresentano il culmine della scrittura in versi di Ferrara.
E ancora, sull’enigma Ferrara, scrive Giorgiomaria Cornelio:
In una lettera all’editore a proposito della seconda edizione dello Pseudobaudelaire, Corrado Costa scrisse che per «il poeta non c’è nessuna biografia – a tutela della sua immagine». Per Ferrara parliamo allora d’immemoriale, come se la definizione continuasse a ritrarsi, a opporsi al certificato d’esistenza che lo volle, allo stesso tempo, docente, critico letterario, esploratore, fondatore di riviste e autore televisivo. Prendendo poi a sbrecciare un poco la compagine dei resti, i «cinque continenti strappati al midollo dell’anima», i quasi 40.000 volumi appigliati ovunque nella sua casa romana (avendo concentrato il nubifragio in unico auto-de-fé: esoterismo, alchimia, letteratura, antropologia, botanica…), tutto sembra continuare a reclamare lo studio combinatorio, la vigilanza, il volgersi e il rivolgersi nell’altrove del viaggio e del deserto: non solo quello dell’Africa subsahariana, dove pure Franco Ferrara è stato nel corso delle sue spedizioni seguendo le piste carovaniere utilizzate dai Romani, ma anche quello scavato e innervato nel corpo, come un lungo silenzio che trattiene «l’alba di due eternità».
Franco Ferrara (16 marzo 1935 – 23 gennaio 2014) è stato esploratore, archeologo e poeta, nonché critico d’arte e fondatore di riviste letterarie. Ha pubblicato in vita oltre venti libri di poesia, tradotto dal polacco T.Karpowicz e U.Koziol, e lasciato incompiuto un romanzo comico-fantastico dal titolo Ritorno alle Indie meridiane, sua “dilettosa narranza”.